LIBRI/ Il dolore di Marguerite Duras
Qui la speranza vive intera, il dolore è radicato nella speranza. A volte mi stupisco di non morire (Marguerite Duras)
Ho sempre creduto che la testimonianza di Levi sulla guerra e i campi di concentramento fosse ineguagliabile, per importanza, significato e sentimento. Eppure, dopo la lettura de “Il dolore” di Marguerite Duras, mi sento di collocare anche questo scritto, senza far torto a nessuno (Levi compreso), alla grande letteratura di impegno umano e civile del dopoguerra. Si tratta di un racconto che fa parte di una trilogia intitolata “Il dolore”. Una testimonianza intima, straziante e appassionata sulla tragedia dei deportati e dei campi di concentramento, in cui la voce della Duras si fa testimonianza indiretta (diversamente da Levi e tanti altri), della prigionia del marito deportato a Dachau per aver militato nella resistenza francese.
Sono pagine in cui la Duras racconta -come donna e moglie- di un dolore radicato tutto nella speranza dell’attesa “Lotto contro le immagini della fossa buia”; “I colpi alle tempie continuano. Questi colpi, bisogna che li fermi. E’ la sua morte dentro di me, batte contro le tempie. Impossibile che mi sbagli. Fermare i colpi alle tempie -fermare il cuore- quietarlo- non riuscirà a quiestarsi da solo, deve essere aiutato”. E all’attesa che svuota fino a non esistere più, fa seguito la tragedia del ritorno. Il ritorno di un uomo che non era più uomo, ma un essere ridotto a larva, “la forma” come ebbe a scrivere ella stessa “così disseccato che ci si chiedeva come la vita potesse circolarvi dentro” ; “lui è scomparso, al suo posto la fame”; “…non mi vedeva, mi aveva dimenticata”.
E infine, tra queste pagine piene di silenzi e di risonanze interiori, intrise di dolore e di autentico sentimento, l’accusa alla Germania, l’attacco ai governi di essere effimeri nella storia dei popoli, il disappunto a De Gaule per aver decretato il lutto nazionale per la morte di Roosevelt e niente lutto per i deportati morti “il lutto del popolo non si porta”.
Sono pagine di un diario (formato da due quaderni), che l’autrice ha definito tra le cose più importanti della sua vita. “Come ho potuto scrivere questa cosa a cui ancora non so dare un nome?” e ancora “Mi sono trovata davanti a un disordine formidabile del pensiero e del sentimento che non ho osato toccare, e davanti al quale mi vergogno della letteratura”.
Credo invece che questo racconto/testimonianza stia molto ben oltre la letteratura, in un terreno così elevato e ‘sacrale’, da richiedere a chi legge una disposizione interiore di grande accoglimento e umiltà, unica condizione -forse- per restituire significato e valore a quel sentimento così devastante e tragico (privato e al tempo stesso colletivo) che affonda le radici nel “disumano” della storia.
Maria Pina Ciancio
L’ha ribloggato su b9g1 Pensieri, ricordi ,emozioni …..
"Mi piace""Mi piace"
b9g1 said this on novembre 1, 2013 a 11:25 PM |